sabato 11 giugno 2011

Ancora un riconoscimento per la Facoltà

Il Premio della Fondazione Marisa Bellisario è uno dei più importanti riconoscimenti internazionali alle risorse femminili della cultura e dell'imprenditoria. Giunto alla XXIII edizione il Premio si svolge con l’adesione del Presidente della Repubblica e il Patrocinio di: Senato della Repubblica, Camera dei deputati, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero degli Affari Esteri, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero della Giustizia, Ministero dell’Interno, Ministero della Difesa, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Ministero per le Pari Opportunità, Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione, Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero per il Turismo, Ministero della Gioventù, Regione Lazio, Provincia di Roma, Comune di Roma.
La candidatura di ALESSANDRA FALZONE, ricercatrice della Facoltà di Scienze della Formazione, al premio Marisa Bellisario si è conclusa con un successo. Il Comitato d'onore del Premio – formato da personaggi di primo piano della cultura e dell'imprenditoria italiana (tra cui: Luca Cordero di Montezemolo, Ferruccio de Bortoli, Diego Della Valle, Rita Levi Montalcini, Emma Marcegaglia, Paolo Mieli, Letizia Moratti, Umberto Veronesi, oltre a importanti politici e giornalisti) – le ha, infatti, assegnato all'unanimità una delle "mele d'oro" della XXIII edizione del premio, nella sezione "Ricerca d'eccellenza" che premia quattordici ricercatrici delle Università italiane, una per ogni area CUN, al di sotto dei trentacinque anni. L’evento andrà in onda su Rai Due domenica 19 giugno 2011 in seconda serata e Lunedì 20 giugno, in allegato a Il Sole 24 ORE, sarà in edicola l'inserto, "Le Protagoniste", dedicato interamente al tema del Premio e alle sue protagoniste. Ad Alessandra Falzone i migliori auguri e le congratulazioni di tutta la Facoltà di Scienze della Formazione.

mercoledì 25 maggio 2011

Il nepotismo universitario, l’ascensore sociale e il ruolo della stampa

Ho molto riflettuto se dedicare un intervento pubblico ad un articolo di “Centonove” del 20 Maggio 2011 (p.19) che mi ha stupito perché non contiene nulla di ciò di cui avevo parlato con l’inviato del giornale venuto a trovarmi (problemi di riforma universitaria, scomparsa delle Facoltà sostituite dai Dipartimenti, sedi esterne, ed altri simili “quisquiglie”) e che invece trovo tutto scandalisticamente proiettato su presunti “veleni in facoltà” di cui nessuno in realtà si era accorto. Ho capito solo dopo che pompare ad arte una normale e noiosa divergenza di opinioni sulle procedure burocratiche dei corsi di laurea aveva il solo scopo di introdurre un secondo “pezzo” appiccicato al primo senza alcuna logica se non quella di cercare di macchiare eticamente la mia immagine, quella della mia famiglia e quella dei miei più bravi allievi. Riconosco la mia stupidità e mi complimento con il trash-journalist che ha saputo così abilmente condurre in porto questo “favoloso” scoop contro il mortale pericolo nepotistico costituito da un barone senza scrupoli completamente dedito a procacciarsi vantaggi personali violando tutte le leggi e tutte le etiche virtuose. Alla fine ho deciso, quindi, di onorare questa memorabile impresa intervenendo non tanto per ribattere ad un miscuglio di affermazioni talmente tendenziose (usando una obsoleta tecnica retorica che mischia cose vere e cose false per affermare tesi sempre false) da non meritare “risposta”, quanto per raccogliere il tema del secondo articolo – il nepotismo e la “questione morale” universitaria – che certamente è molto importante e merita una trattazione serena proprio adesso che l’Università italiana sta iniziando il suo irreversibile processo riformatore.

Premetto subito a scanso di equivoci: non ho nulla contro i figli dei professori universitari. Come in tutte le categorie professionali ce ne sono di bravissimi, la cui unica croce è di portare il nome dei loro padri (o madri), e ce ne sono di ignoranti da far arrossire di vergogna i settori scientifici che li hanno promossi sul campo. Perdere i primi è un impoverimento culturale imperdonabile per le Università. Evitare i secondi è una necessità per la competizione scientifica. Tutto ciò, naturalmente, nel rispetto delle leggi, della morale e degli individui.

Cominciamo con le leggi. Sino a tutto il 2010 nessuna specifica legge sull’Università regolava i rapporti di parentela all’interno degli Atenei. Dal 29 Gennaio 2011 è entrata in vigore la rigorosissima legge Gelmini. Criticabile o meno (io l’ho sempre difesa) nega (art. 18 comma 1b) che possano essere chiamati professori associati o ordinari, assegnisti, ricercatori a tempo determinato o contrattisti “che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell'ateneo”. Il “quarto grado” comprende sino ai cugini. Non sono ovviamente inclusi – come in nessuna altra parte del mondo – i rapporti di non-consanguineità: mogli/mariti, conviventi, o qualsiasi altro rapporto codificato o meno che sia frutto di una libera scelta tra pari. Il motivo è ovvio: si tratta per la maggior parte di casi di rapporti che intervengono già tra studiosi del tutto indipendenti. È noto, anzi, che negli Stati Uniti – patria riconosciuta del puritanesimo più oltranzista – le Università che vogliano accaparrarsi le prestazioni di un professore particolarmente prestigioso per aumentare la competitività della struttura spesso offrono un contratto di docenza (o ricerca) anche a chi gli si accompagna: mogli/mariti, conviventi o allievi o altro che siano. In sintesi: con le nuove leggi sappiamo intanto, al di là delle opinioni personali, certamente ciò che si può e ciò che non si può fare.

Quando entriamo nelle questioni etiche le cose si complicano molto. L’opportunità morale dei comportamenti richiede qualcosa di più, ed anche di diverso, che non la semplice osservanza delle leggi. Per esempio richiederebbe che i rapporti parentali sino al quarto grado siano del tutto esclusi almeno dallo stesso settore scientifico-disciplinare. I figli dei professori universitari, restando nel rispetto delle leggi, potrebbero insegnare in altri Dipartimenti diversi da quelli del padre/madre, oppure in altre Università: ma farlo, comunque, nello stesso settore scientifico-disciplinare del padre/madre non è certo una buona scelta. Certo si potrebbero pure giustificare in astratto (per es. per giovani straordinariamente bravi) delle circoscritte eccezioni, considerato che la legge (purtroppo) non lo impedisce: ma essere giudicati da professori a loro volta giudicabili dal proprio genitore dovrebbe essere considerato comunque sconveniente. Quando poi padri/madri e figli risiedono nella stessa struttura e appartengonono anche allo stesso settore scientifico-disciplinare la nitidezza del profilo etico appare ancor più controversa. Chi si trova in queste condizioni dovrebbe perlomeno esercitare prudenza a lanciare anatemi morali contro il nepotismo imperante! Infine coloro i quali sono padri/madri di figli che risiedono nella stessa struttura, appartengono allo stesso settore scientifico-disciplinare e condividono, inoltre, curriculum entrambi scadenti, non hanno proprio alcun alibi e farebbero bene a passarsi una mano sulla coscienza e a ripensare con mente serena quanto tutto ciò possa nuocere a loro e ai loro figli medesimi. La reputazione scientifica è nell’Università il valore etico più alto. La riuscita scientifica di un giovane è il vero ed unico metro della morale accademica. E le conseguenze di una bocciatura etica di tal fatta ri-mordono, col tempo, ben più di quelli di una bocciatura giuridica.

Il nepotismo accademico, tuttavia, non esaurisce affatto la questione morale nelle Università: c’è qualcosa di eticamente ben più importante che tutti fanno finta di dimenticare, soprattutto i giornalisti. Credo, infatti, che l’autentica patente di eccellenza morale del “baronato” universitario sia la promozione del cosiddetto “ascensore sociale”. La capacità, cioè, di garantire A TUTTI gli studenti MERITEVOLI non solo un supporto scientifico e culturale di alto livello ma anche un sostegno morale che li protegga dall’emarginazione sociale, dall’esclusione delle opportunità, dalle procedure di mobbing che scattano quando qualcuno che non appartiene alla casta degli “eletti” comincia a scalare le difficili vette della carriera universitaria.
Qualcuno pensa che gli eletti siano solo i figli dei professori universitari. E questo è l’effetto del trash-journalism che abbaglia tutti con lo scandalismo d’accatto ma che non si accorgerebbe mai – nemmeno sbattendoci il muso contro – che il vero problema delle nostre Università è la mancanza di circolazione sociale, la reticenza a far accedere alla carriera universitaria i meritevoli che non appartengono ai ceti più elevati, ai potentati economici e politici, ai frequentatori esclusivi dei salotti delle caste professionali. A scanso di equivoche interpretazioni estremistiche vorrei dire che non solo non ho nulla contro la grande cultura borghese ma che, anzi, la considero il vero motore trainante di qualsiasi paese moderno destinato a primeggiare. C’è, tuttavia, una bella differenza tra la cultura della grande borghesia liberale e la difesa ad oltranza dei privilegi delle caste professionali. E l’Università è il terreno dove questo fenomeno meglio risalta. La stessa nozione storica di “borghesia” dovrebbe essere costitutivamente connessa con l’idea della circolazione culturale, sociale ed economica, quindi, per quel che ci riguarda, con il perfetto funzionamento dell’“ascensore sociale” che permetterebbe a tutti i giovani più bravi di arrivare ai vertici. Mi chiedo, tuttavia, qual è, nelle nostre Università, il grado di circolazione culturale, di ricambio sociale, di reale successo dei giovani meritevoli indipendentemente dalle loro origini ed appartenenze sociali?
Credo che la risposta sia, per tutta l’Università italiana, deludente. L’Accademia resta una struttura chiusa, respingente. Permette, forse, di laureare (molto meno, comunque, che negli altri paesi civili) anche chi non è nelle primissime posizioni sociali. Ma quando questi laureati cominciano a trasformarsi da bravi ragazzi in eccellenti e competitivi ricercatori ecco scattare l’altolà! È questo è appunto il luogo di saldatura tra il trash-journalism e il conservatorismo universitario: la spazzatura e l’aristocrazia si stringono la mano per fermare i processi di reale rinnovamento e di autentica circolazione culturale e sociale dei saperi. Cioè la vera morale!
Una ricetta, quindi, per un codice etico universitario che incida realmente sui processi culturali, economici e sociali? Riuscire ad aprire le carriere universitari a tutti gli allievi veramente meritevoli, guardando solo alla loro competitività scientifico-culturale, offrendo loro tutte le opportunità possibili e abbandonando ogni pregiudizio sociale sulla provenienza! Se non lo facessimo saremmo oltretutto stupidamente suicìdi: sarebbe come rinunciare ad assumere Ronaldo nella nostra squadra di calcio sol perché viene dalle favelas brasiliane!
Lo ha fatto l’Università di Messina? Ha promosso la morale del merito attraverso l’uso dell’“ascensore sociale”? La mia opinione in questi sette anni di presidenza e di partecipazione al governo dell’Università è: l’ha fatto ma poco; molto più di prima ma molto meno di quanto potrebbe. Certo l’atteggiamento accademico aristocratico – forse grazie anche alla crisi economica – è finalmente considerato oggi non solo inadeguato ma addirittura patetico. C’è, tuttavia, ancora troppa retorica e poca concretezza: il passaggio dai lenti mutamenti di opinione ai processi operativi realmente virtuosi è ancora lungo e richiede un nuovo spirito di governo dell’Università. Uno spirito di cui la riforma potrebbe favorire la nascita ma che il conservatorismo accademico da una parte e un giornalismo culturalmente arretrato dall’altra potrebbero portare inopinatamente ad una morte prematura.

lunedì 12 luglio 2010

Grazie: una solidarietà salda come la roccia

È ormai trascorsa quasi una settimana dall'inconsulto atto che ha determinato qualcuno a farmi recapitare due pallottole ed una esplicita promessa di morte per impormi di smettere di fare ciò che ho sempre fatto nella mia vita di docente universitario e funzionario di uno Stato in cui ho sempre creduto: semplicemente il mio dovere.
La cosa che mi ha davvero sorpreso, dandomi una grande fiducia per il futuro, è l'ampiezza e la qualità della solidarietà che ho ricevuto in questi giorni. Non solo il Senato Accademico dell'Ateneo messinese e il Consiglio di Facoltà di Scienze della Formazione, ma moltissimi rappresentanti di tante altre università italiane, degli enti locali, di prestigiose istituzioni della società civile laica e religiosa (il Comune, l'Assessorato regionale, la Confindustria, tantissimi Presidi, etc.) hanno voluto ricordarmi non solo la loro operosa presenza ma la stessa identificazione tra me e loro, tra il singolo e la collettività. Potrei naturalmente sbagliarmi, ma non mi è parsa la solita struttura assente di una coscienza puramente retorica. Mi è sembrata, invece, una solidarietà forte come la roccia, un'unica pietra che può forse conoscere scheggiature ma non frammentazioni. Accanto alle istituzioni anche un gran numero di colleghi, studenti, genitori, amici, persino di persone estranee, che da ogni parte d'Italia avevano saputo della grave intimidazione – grazie anche all'eccezionale lavoro informativo della stampa e degli altri media – hanno voluto farmi sentire la loro vicinanza, la loro parola di conforto e di rifiuto assoluto della logica della violenza e della paura.
Dire a tutti che li ringrazio è poco, troppo poco.
L'idea di un episodio che forse in altri tempi sarebbe passato doppiamente nascosto – da parte di chi lo ha ricevuto direttamente e da parte di chi si è sentito indirettamente colpito – e che stavolta ha fatto in un attimo il giro d'Italia, mi fa pensare che i tempi pur duri che stiamo vivendo sono molto cambiati rispetto a quelli di tanti anni fa: non c'è più spazio per le paure in una casa che non è ancora di vetro ma non è più completamente opaca come una volta. Una casa che comincia con difficoltà, ma senza ripensamenti, a diventare trasparente e, quindi, tornare invisibile ai colpi della violenza e dell'omertà che le dà corpo.
Non posso non dirlo: mi sono sentito protetto in questa casa. Possiamo (e dobbiamo) anche lamentarci e criticarla, ma questa casa è anche quella della professionalità degli inquirenti che hanno cominciato subito e con determinazione le indagini; del senso di responsabilità e di coscienza civile che emergeva da ogni presa di posizione che sentivo per bocca del personale docente e non docente; del reale senso di partecipazione di tutta la comunità degli studenti agli interessi del nostro pubblico bene. Grazie a tutto ciò ho realizzato per un attimo ciò che ho sempre sperato: vivere in un paese normale in cui c'è un'evidenza naturale argomentata di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, di ciò che dobbiamo accettare e di ciò che dobbiamo ad ogni costo rifiutare. Che sia un "dente di non ritorno" anche per l'ingranaggio della nostra vita universitaria e cittadina?

sabato 13 dicembre 2008

› Il Corriere della Sera riconosce i meriti della Facoltà di Scienze della Formazione: niente crediti facili ai giornalisti in corsi di Comunicazione

Se lo dicono persino Rizzo e Stella ci puoi credere!
In un articolo del 15 Dicembre 2008 (Università e scorciatoie: le lauree facili concesse ai giornalisti) rivolto contro la concessione facile di crediti universitari per i giornalisti (la famigerata campagna "Laureare l'esperienza") i due autori riportano un dato di notevole interesse che rende merito alle scelte della Facoltà: il corso di laurea in Comunicazione più numeroso dell'Ateneo, quello in "Tecnologie dell'istruzione e della comunicazione" – oggi rinnovato in "Scienze della comunicazione" – è l'unico a non aver concesso a giornalisti crediti per "meriti speciali". Ricordo bene una dura battaglia condotta assieme al prof. Dino Palumbo – coordinatore del Corso – contro gli assalti alla serietà degli studi e a difesa degli studenti, contro cioè un'interpretazione della campagna "Laureare l'esperienza" che pretendeva di riconoscere ai giornalisti non solo i crediti per le attività di tirocinio professionale (che sarebbe giusto), ma anche quelli per ottenere "gratis" gli esami di profitto che gli studenti "normali" dovevano sostenere con impegno e serietà! Oggi quello stop alle lauree facili imposto dal corso di laurea in Scienze della comunicazione della nostra Facoltà – anche a costo di avere meno iscritti – è riconosciuto come un merito. Meglio tardi che mai!

venerdì 12 dicembre 2008

› Proposte per il dopo-Gelmini

Si guarda oggi all’Università in due modi opposti. Il primo è come ad un ufficio di collocamento che “sistemi” la maggior quantità possibile di gente: i “clienti” in tempi di vacche grasse, i parenti in tempi di progressivo immiserimento. Il secondo è come ad un’istituzione pubblica da cui dipende la formazione della classe imprenditoriale, dirigente e professionale del paese e lo sviluppo della sua ricerca scientifica, tecnologica e umanistica.
Il primo modo corrisponde, grosso modo, a come la classe politica e l’opinione pubblica meridionali (ma non solo) hanno sinora guardato a qualsiasi ente pubblico. Una proiezione degli interessi della propria “famiglia”, a cui concorrono, in parti uguali, ma con colpe sociali progressivamente differenti, sia le classi agiate, sia il ceto medio, sia gli strati economicamente più bassi della popolazione. Queste tipologie sociali sono “cognitivamente cieche” ai problemi dell’efficienza della macchina pubblica, della qualità dei suoi operatori, della meritocrazia, del servizio pubblico svolto, etc. Non si rendono, cioè, neppure conto del danno che possono causare alle pubbliche amministrazioni. Vanno quindi bene tre maestri contemporanei per classe, ma anche qualche centinaio di professori universitari “impegnatissimi” nella cura di dieci studenti o una sfilza di bibliotecari nessuno dei quali può prendere libri perché non rientra “nelle loro mansioni contrattuali”.
Non si creda, tuttavia, che anche il secondo modo di guardare all’Università sia esente da vizi. Al contrario anche chi, a parole, crede nell’istituzione pubblica commette veri e propri “peccati politici mortali”: primo fra tutti quello di considerare lo scopo primario dell’Università l’aristocratica produzione di “eccellenze”. Lasciamo stare, per il momento, l’annoso problema di chi, come e quando sia autorizzato a definire il merito e l’eccellenza. Diciamo solo, a questo proposito, che è un problema complesso, sottovalutando il quale ci potremmo trovare nella stessa situazione in cui si è trovata la finanza cartacea: per decenni le imprese italiane hanno subìto le pessime valutazioni di quelle stesse banche e agenzie di rating multinazionali che sono fallite nel giro di una settimana, travolgendo migliaia di risparmiatori, vittime ignare quanto i nostri strumentalizzati studenti. Occorre imparare a diffidare dai pulpiti che predicano l’auto-eccellenza finanziaria e accademica! I processi valutativi ed autovalutativi sono sacrosanti ma devono, innanzitutto, mirare a capire se le risorse umane impiegate nella didattica e nella ricerca siano almeno adeguate a soddisfare il crescere della domanda di istruzione superiore che un’istituzione pubblica ha il dovere etico di promuovere come sua specifica vocazione politico-culturale, almeno dalla Rivoluzione francese in poi.
Fatte queste precisazioni veniamo ai fatti e alle prospettive che si potrebbero aprire a partire dalla discussione sui piani della Gelmini e la promessa ennesima riforma universitaria. Ora è il momento in cui l’Università può farsi sentire, smettendola di nascondersi dietro i “benevoli” cortei degli studenti e, in un certo senso, auto-smascherandosi.
Che Università vuole l’Università, i Rettori, la CRUI? Lo si dica pubblicamente e non nei confessionili con i sottosegretari! Qual è la gerarchia dei problemi più gravi dell’Università secondo l’Università stessa? Vogliamo partire dagli interessi reali, quelli cioè di milioni di studenti e docenti, o da quelli di minoranze bocciate alle elezioni e riciclate nelle piazze?
Se vogliamo partire dai primi mettiamo al primo posto l’esigenza di laureare in tempo e nel miglior modo possibile chi si iscrive all’Università. E qui troveremo delle soprese. Secondo i dati OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) nell’Università pre-riforma – quella sì dei veri Baroni – solo il 30% arrivava alla laurea, mentre dopo la riforma del 3+2, quella che non piace alle “famiglie”, ci arriva il 50%. Ce lo dice la stessa Gelmini sulle sue “Linee-Guida” che si possono leggere sul sito MIUR. Tuttavia – stranamente – ne parla come di un dato negativo! Forse nessuno gli ha detto che sui grandi numeri della statistica sociale il 20% è tanto. Un aumento del 20% in pochi anni dovrebbe meritare una medaglia al merito: qualunque impresa pubblica che in questi anni avesse ottenuto un simile risultato (ma non ce n’è neppura una, ci sono solo imprese che producono miliardi di debiti senza alcun risultato positivo, come l’Alitalia) sarebbe portata ad esempio. Naturalmente all’interno del governo dell’Università sappiamo che non bisogna affatto riposare sugli allori. Il 50% di successi è giusto considerarlo ancora poco perché l’Università aristocratica dei veri Baroni della prima Repubblica aveva toccato il fondo con il suo 30%. L’Italia ha un grande bisogno di laureati! Quindi bisogna continuare nella riforma e migliorarla.
Come? Facilissimo. La smettano il governo e l’opposizione di essere d’accordo sulla critica ai Corsi di laurea e alle Facoltà fantasma. Ci sono 37 corsi di laurea con un solo studente e 327 facoltà che non superano i 15 iscritti come dice la Gelmini? Chiudeteli subito! Allo stesso modo ci sono decine di Facoltà e Atenei virtuosi in Italia che hanno tantissimi iscritti, tanti laureati, bilanci in ordine ma pochissime risorse. Invece di ideare barocche riforme sui “requisiti minimi” o improbabili premialità dell’eccellenza virtuale auto-attribuita, basta istituire una Robin tax dell’Università: togliere a chi non ne ha bisogno per dare a chi ne ha bisogno.
Un’altra proposta su cui tutti dovrebbero essere d’accordo? Smettiamo almeno di premiare i docenti che non producono alcun tipo di ricerca, nè d’eccellenza e neppure di decenza. Stante alle statistiche c’è circa un 30% di professori, perlopiù ultracinquantenni, che negli ultimi tre anni non ha pubblicato nulla o quasi. Per contro dall’Università dei Dottorati (non esistono solo i luoghi di perdizione!) sono emersi un certo numero di giovani studiosi che pubblicano importanti libri ed articoli su riviste prestigiose e parlano nei Convegni internazionali più selettivi, riscattando l’immagine dell’italietta familiar-provinciale. Naturalmente non tutti i nostri “precari” della ricerca sono così bravi. Ma almeno questi avranno il diritto di entrare al posto dei docenti improduttivi?
Vogliamo contribuire a sfatare un’altra stupidaggine che politici, giornalisti e professori vanno ripetendo senza ritegno? Sempre secondo i dati OECD l’Italia si trova agli ultimissimi posti sia per attrazione di studenti stranieri sia per esportazione di studenti italiani all’estero. Altro che “fuga dei cervelli”! L’Italia attrae turisti ma non studenti, esporta scarpe e vestiti ma non talenti scientifici. D’altrocanto perché dovremmo attrarre stranieri? Organizziamo corsi in inglese per studenti africani, cinesi, arabi? Gli forniamo opportunità logistiche, posti-letto, laboratori e biblioteche sempre aperte? E perché dovremmo esportare talenti? Qui farebbero bene a riflettere tutti i precari universitari che sembrano clonati dalla logica del posto fisso che ha sempre ispirato quei baroni vecchi e nuovi che pure pretendono di criticare ma a cui, alla fine, finiscono col somigliare. Tutti, a parole, sono d’accordo sui “concorsi perfetti”, puliti e liberi. Ma sappiamo cosa significa veramente competere senza posti riservati e “membri interni”? Sappiamo che accettare la competizione significa gareggiare con i matematici indiani, gli informatici coreani o gli ingegneri finlandesi? Occorre attrezzarsi per una reale competizione dei migliori, un’eccellenza (questa sì) vera fondata sul cosmopolitismo della formazione, sulla sprovincializzazione delle abitudini culturali e sulla fine di ogni mammismo culturale e scientifico.
Un’ultima proposta che rivolgo esclusivamente ai giovani senza pregiudizi e in buona fede: perché non proviamo a considerare il progressivo esaursi del turn-over nel pubblico impiego la più grande opportunità che si sia mai presentata per il futuro dei laureati meridionali? Faccio il Preside di una Facoltà umanistica che produce molti e bravi laureati in Formazione, Comunicazione, Psicologia, Turismo e Scienze Cognitive. I settori più vivi della cultura sociale e tecnologica contemporanea. Quelli che producono servizi avanzati per le società di massa. E, tuttavia, gli studenti e i loro genitori non fanno che chiedermi a quali posti fissi giungeranno a partire dalle lauree acquisite? Il danno che questi ragazzi hanno subìto da questa “ideologia del collocamento” perpetrata sia da destra che da sinistra, dalla cultura sindacale come da quella familiare, è irrepararabile? Possibile che anche i professionisti del lavoro autonomo dei servizi non capiscano il tesoro che sta sepolto sotto i loro piedi? Nei prossimi venti anni – lo vogliano o no le piazze – tutti gli apparati statali si saranno liberati finalmente dai pesi inutili accumulatisi nel secolo precedente. Le Università degli anni duemila non si serviranno più di impiegati statali addetti alle pulizie, alla ristorazione, alla gestione delle biblioteche, al funzionamento dei laboratori, all’efficienza dei processi di informazione, consulenza e comunicazione, da pagare a vita. Spariti i posti fissi non spariranno, tuttavia, anzi si accresceranno enormemente, le esigenze di servizi lasciati vuoti. Le incalcolabili somme che la liberazione dei posti a vita produrranno potranno rendersi finalmente disponibili non più per coprire le patetiche “piante organiche” ma per essere affidate ad efficienti imprese professionalmente dedicate ai servizi che solo voi laureati avrete titolo a produrre. Un’ultima provocazione: occorrono leggi che regionalizzino queste opportunità. Lo hanno capito al Nord, guai se non lo capissero i giovani laurati e i politici meridionali. Occorrono provvedimenti che agevolino o rendano quasi obbligatorio l’affidamento della cosiddetta “esternalizzazione” dei servizi a chi si è formato e ha saputo “far impresa” nel territorio in cui ha studiato. Altro che “posto fisso”, per povero e maledetto che sia!